venerdì 24 luglio 2015

285 giorni

A volte, quando non si è del tutto sicuri di quello che si vuole dire, è meglio tacere, così come quando non si è dell’umore adatto. È quello che ho fatto in questi ultimi giorni e non me ne pento.
Ora non posso dire che il mio umore sia molto cambiato, ma quantomeno mi sono schiarita le idee, quindi ho intenzione di dire quello che penso, senza troppi fronzoli e senza troppi giri di parole.

Sono trascorsi 285 giorni tra il 5 Ottobre 2014, giorno dell’incidente a Suzuka, e il 17 Luglio 2015, giorno in cui Jules Bianchi se n’è andato per sempre. Sono stati 285 giorni in cui, tra alti e bassi, tante persone hanno continuato ad aggrapparsi alla speranza che le cose potessero finire in un altro modo. Non è accaduto. Non è andata come speravano, non è andata come speravo, non è andata come speravamo.
Sull’incidente, a suo tempo, ho già detto come la pensavo. La penso tuttora allo stesso modo: è chiaro che non si può eliminare al cento per cento il rischio che accadano incidenti con conseguenze così drammatiche ma è altrettanto chiaro che un incidente con tale dinamica non doveva accadere. Purtroppo questo incidente è stato frutto (non solo, ma anche) della convinzione che la sicurezza vada affrontata soltanto in termini di 1) solidità delle vetture, 2) ampiezza delle vie di fuga, 3) pericolosità delle monoposto rimaste ferme a lato della pista o nelle vie di fuga. Il primo punto è a posto, il secondo anche, il terzo dimentica totalmente il fatto che i mezzi di recupero utilizzati per rimuovere le monoposto ferme possono rivelarsi ben più pericolosi della vettura. Scrivere che un incidente con tale dinamica non sarebbe più dovuto avvenire al giorno d’oggi sarebbe quasi una contraddizione: nei tempi passati, in cui o c’era una bella bandiera rossa non appena c’era un intoppo di questo tipo o in cui la vettura rimaneva lì ferma senza che nessuno se la filasse per ore, la probabilità di trovare un trattore in manovra in una via di fuga sarebbe stata estremamente bassa. La vera contraddizione quindi è, a mio parere, che per andare incontro alla sicurezza, la sicurezza stessa venga messa in discussione.
Non sono qui per parlare di responsabilità, perché sinceramente sono rimasta abbastanza basita mesi fa nel sentire dire  la cosa è stata gestita nello stesso esatto modo di centinaia di situazioni analoghe negli ultimi anni, come se negli ultimi anni si fossero corsi centinaia di gran premi sotto al diluvio universale, e non mi va affatto di mettermi a puntare il dito contro all’uno o contro all’altro. Non doveva succedere ma è successo. Fare polemiche qui, in questo post, non cambia la realtà dei fatti e mi sembra sterile e inutile.

Nei giorni scorsi ho postato un’immagine e un video, null’altro. Ho avuto l’impressione che qualunque parola sarebbe stata vuota e priva di importanza. Non ero nello stato d’animo adatto per mettermi a scrivere e non avevo nemmeno idea di cosa dire.
Adesso lo so. So che fin troppa gente sta a parlare di talento sprecato e di quello che sarebbe potuto succedere se le cose fossero andate diversamente. Sì, da un lato sono considerazioni valide, ma ogni volta che leggo osservazioni del genere ho la macabra convinzione che davvero qualcuno pensi che il valore di una vita si misuri in base al talento e al successo. Insomma, mi sembra di leggere tra le righe qualcosa che suona come: “sì, ne sto parlando perché era un bravo pilota e avrebbe potuto diventare qualcuno, non perché me ne importi davvero fino in fondo”. Anche questo volevo evitarlo.
Sì, anche per me ci sarà sempre il rimpianto di non avere mai saputo come sarebbe andata a finire, ma non è la prima cosa a cui ho pensato quando ho letto l’ultima notizia che avrei voluto leggere.

Le mie speranze si sono interrotte sabato scorso, verso le due e venti del pomeriggio. Non avevo ancora acceso nulla, quella mattina, né TV né computer. Non ne sapevo niente e mi sono connessa al sito di F1 Racing. Volevo vedere a che ora sarebbe iniziata la gara di Indycar quella sera, ma prima di arrivarci ho visto l’homepage.
Ci sono stati quei pochi istanti in cui non sono riuscita a capacitarmi di quello che stavo leggendo.
Poi sono arrivati i pensieri, uno dopo l’altro.
È finita. Non può essere davvero accaduto.
Invece è accaduto, anche se è difficile da accettare. È accaduto venerdì scorso, il 17/07. Non ho mai creduto nel destino, ma mi è sembrata una coincidenza strana. Il 17 era il suo numero di gara, che aveva scelto perché voleva il 7, il 27, il 77 o un numero in cui c’era il 7: il 17 e il 7 erano quindi la sua scelta forzata e la sua prima scelta.

Il mio primo ricordo di Jules Bianchi credo che risalga all’epoca in cui era pilota di riserva della Force India. Ero al corrente della sua esistenza anche prima, ma per me era più che altro un nome.
Ricordo che all’epoca i fanboy ne parlavano di tanto in tanto, dicendo che era “scarso perché il suo manager è Nicolas Todt”, e sinceramente non ho mai capito il legame tra una cosa e l’altra.
A me non è mai sembrato uno scarso, nei due anni alla Marussia nei limiti del possibile spaccava il culo a tutti e i suoi duelli in particolare con Kobayashi sono una delle cose più eccitanti che mi ricordi di avere mai visto negli ultimi anni.
Ricordo che nel 2013, proprio dopo il gran premio di Montecarlo, avevo scritto di auspicarmi che una vettura di un “piccolo team” potesse ottenere punti, un giorno. È stato proprio lui, esattamente un anno più tardi.
Tra i miei sogni motoristici, che avevo elencato per filo e per segno, ne avevo messo anche un altro: vedere lui e Vettel compagni di squadra in Ferrari dopo l’addio di Alonso. Il mio intento era più che altro quello di leggere i commenti dei fanboy e di ricordare loro cos’avevano detto in passato, non che me ne importasse granché di quello che sarebbe accaduto, ma al giorno d’oggi mi rendo conto che FORSE sarebbe potuto accadere.
Quello che è certo è che mi sarebbe piaciuto vederlo in Ferrari; ricordo che soltanto un giorno prima dell’incidente di Suzuka, quando fu annunciato l’addio di Vettel alla Redbull, compresi che non c’erano proprio speranze. Poi va beh, con i fatti del giorno dopo tutto perse d’importanza, però all’epoca ci rimasi male.

Penso che si sia capito che negli ultimi anni mi sono “innamorata” della Marussia. Il 2013 e il 2014 sono stati gli anni di accanimento maggiore e mi ero affezionata tanto a entrambi i piloti.
Vedere Chilton vincere (per “vedere” si intende “vedere il live timing”) la sua prima gara di Indylights a 24 ore di distanza dalla morte di Jules e dedicargli la vittoria mi ha fatto uno strano effetto. È stato commovente, molto più commovente di ogni altra cosa, a parte le foto del funerale.

Non mi commuove il fatto che il numero 17 sia stato ritirato. Andrò controcorrente, ma la cosa mi lascia un po’ indifferente, per due motivi. Il primo: se un giorno qualcuno volesse prendere il suo stesso numero in suo onore, perché lo ammirava, non potrebbe farlo. Il secondo: più che una decisione dettata dal rispetto mi è sembrato un modo per lavarsi la coscienza.

Addio Jules.
Mi mancherai.


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